“Propongo di chiamare Terzo paesaggio l’insieme di tutti i territori sottratti all’azione umana. È un terreno di rifugio per la diversità, altrimenti cacciata al di fuori degli spazi dominati dall’uomo… Il Terzo paesaggio è un luogo di indecisione per le amministrazioni e per l’utilizzo programmato da parte della società”
Il Terzo Paesaggio ovvero l’elegia degli “spazi incolti”
Gilles Clément chiama friche gli spazi dove la natura prende il sopravvento, dove i vegetali sono liberi di crescere e moltiplicarsi, dove le specie più competitive prendono naturalmente il sopravvento, dove specie nuove spontaneamente si affacciano sul terreno, dove l’uomo non interviene per costruire le consociazioni vegetali, per decidere quale specie abbiano lo ius soli.
Sono gli spazi dove si difende la biodiversità contro il determinismo autoritario del paesaggista, dove i rovi crescono indisturbati, dove tra gli arbusti impenetrabili nidifica l’avifauna, i piccoli roditori, gli insetti, dove le farfalle trovano le specie per noi poco interessanti per nutrire i bruchi.
Ecco allora che questi luoghi, le friche, i terreni abbandonati, che propongo di indicare in italiano con “spazi incolti”, sono da opporre ai terreni coltivati tipici sia dei parchi e dei giardini che oggi conosciamo che dei campi agrari, dove l’ordine umano vuole sopravanzare il disordine naturale. Ecco allora che negli “spazi incolti”, dove l’uomo non interviene continuamente per controllare le dinamiche delle popolazioni vegetali, si raggiunge il climax, lo stato stabile di vegetazione.
In questa rivoluzionaria visione gli “spazi incolti” sono assunti a categoria di paesaggio, sia urbano che agrario.
Lo “spazi incolto” non prevede attività antropiche, sia quelle per mantenere il verde che quelle ahimè classiche degli spazi non presidiati, che trasformano gli spazi incolti in spazi di risulta, dove ancora è l’uomo a dominare utilizzando questi spazi come discariche all’aperto. L’uomo ha accesso agli “spazi incolti” solo attraversi piccoli pertugi e si muove lungo stretti passaggi nel pieno rispetto della crescita naturale e “disordinata” delle piante e della fauna.
Gilles Clément (1943) è un paesaggista, ingegnere agronomo, botanico, entomologo, docente presso l’Ecole Nationale Supérieure du Paysage a Versailles e scrittore, ha influenzato con le proprie teorie e con le proprie realizzazioni (tra queste il Pare André-Citroèn e il Musée du quai Branly, entrambi a Parigi) un’intera generazione di paesaggisti europei.
Ha pubblicato tra l’altro Le jardin en mouvement (1994), Lejardin planétaire (catalogo della mostra alla Villette di Parigi, 1999), La sagesse du jardinier (2004), e due romanzi, Thomas et le Voyageur (1997) e La dernière pierre (1999). In italiano sono stati pubblicati l’antologia Il giardiniere planetario (22 publishing, 2008) e Elogio delle vagabonde (DeriveApprodi, 2010). Quodlibet ha già pubblicato Manifesto del Terzo paesaggio, a cura di Filippo De Pieri, nel 2005.
“Manifesto del Terzo Paesaggio”
Con l’espressione “Terzo paesaggio”, Gilles Clément indica tutti i “luoghi abbandonati dall’uomo”: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate del pianeta, ma anche spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili: le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico. Sono spazi diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati solo dall’assenza di ogni attività umana, ma che presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica.
Questo piccolo libro ne mostra i meccanismi evolutivi, le connessioni reciproche, l’importanza per il futuro del pianeta. È un’opera di grande densità teorica, che apre un campo di riflessione anche ad implicazioni politiche. “Terzo paesaggio” rinvia a “Terzo stato”, al pamphlet di Seyès del 1789: “Cos’è il Terzo stato? -Tutto. Cosa ha fatto finora? – Niente. Cosa aspira a diventare? – Qualcosa”.
“Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantica di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e cene aree abbandonate in seguito a una dismissione recente.
Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto m comune; tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.
Questo rende giustificabile raccoglierli sotto un unico termine. Propongo Terzo paesaggio, terzo termine di un’analisi che ha raggruppato i principali dati osservabili sotto l’ombra da un lato, la luce dall’altro”.
Il giardino in movimento racchiude in sé diversi gradi di leggibilità: è una guida per il giardiniere, è un trattato di filosofia della natura, è un resoconto letterario delle esperienze che Gilles Clément ha fatto interagendo con. la natura. E parte non secondaria dell’importanza di questo libro sta nell’imponente apparato di immagini che lo stesso autore ha raccolto a corredo del suo racconto.
Non un manuale o un prontuario, dunque, non si tratta di precetti o prescrizioni, ma un vero e proprio viatico, la scorta di provviste per il viaggio attraverso quello che Clément ama definire – nel quadro di una analisi che spesso mostra anche i limiti dei concetti tradizionali dell’ecologia – il giardino planetario.
Indispensabile, per il giardiniere (come Clément stesso ama farsi definire), è innanzi tutto un’educazione dello sguardo, allo scopo di acquisire la facoltà di rinvenire ciò che nel mondo vegetale è al contempo invisibile e fondamentale. E in tal senso questo libro fa da complemento al Manifesto del terzo paesaggio, pubblicato da Quodlibet nel 2005, integrandone e arricchendone le idee in forma più estesa e narrativa.
Dall’altro lato vengono descritti e analizzati nel dettaglio una miriade di casi concreti per rendere trasparente cosa significhi dare corpo a un’idea paradossale come quella di «giardino in movimento», spazio in cui la natura non è assoggettata e soffocata dalle briglie di un progetto, di uno schema preconfezionato, e dove spesso è più prezioso sapere cosa non fare piuttosto che intervenire e aggredire. Si apprende l’arte di agevolare, favorire, incoraggiare, e mentre «il gioco delle trasformazioni sconvolge costantemente il disegno del giardino», sia il giardiniere, ovvero il «guardiano dell’imprevedibile», sia ogni eventuale visitatore, possono nutrirsi delle immancabili dosi di sorpresa che la natura riserva loro quando si esprime finalmente nella sua pienezza.
Obiettivo: seguire il flusso naturale dei vegetali, inscriversi nella corrente biologica che anima il luogo e orientarla. Non considerare la pianta come un oggetto finito. Non isolarla dal contesto che la fa esistere.
Risultato: il gioco delle trasformazioni sconvolge costantemente il disegno del giardino. Tutto è nelle mani del giardiniere. È lui a concepire il giardino. Il movimento è il suo attrezzo, l’erba la sua materia, la vita la sua conoscenza.
È certo difficile immaginare quale aspetto prenderanno i giardini per cui è prevista un’esistenza non inscritta, in nessuna forma. A mio parere, giardini di questo tipo non dovrebbero essere giudicati sulla base della loro forma ma piuttosto sulla base della loro capacità di tradurre una certa felicità di esistere.
Il Terzo Paesaggio ovvero l’elegia degli “spazi incolti”
Clément chiama friche gli spazi dove la natura prende il sopravvento, dove i vegetali sono liberi di crescere e moltiplicarsi, dove le specie più competitive prendono naturalmente il sopravvento, dove specie nuove spontaneamente si affacciano sul terreno, dove l’uomo non interviene per costruire le consociazioni vegetali, per decidere quale specie hanno lo ius soli. Sono gli spazi dove si difende la biodiversità contro il determinismo autoritario del paesaggista, dove i rovi crescono indisturbati, dove tra gli arbusti impenetrabili nidifica l’avifauna, i piccoli roditori, gli insetti, dove le farfalle trovano le specie per nutrire le larve.
Ecco allora che questi luoghi, le friche, i terreni abbandonati, che propongo di indicare in italiano con “spazi incolti”, da opporre ai terreni coltivati, tipici dei parchi e dei giardini che oggi conosciamo e dei campi agricoli, dove l’ordine umano vuole sopravanzare il disordine naturale. Ecco allora che negli “spazi incolti”, dove l’uomo non interviene continuamente per controllare le dinamiche delle popolazioni vegetali, si raggiunge il climax, lo stato stabile di vegetazione.
Gli “spazi incolti” assunti a categoria di paesaggio, sia urbano che agrario, che non devono diventare spazi di risulta, dove ancore è l’uomo a dominare utilizzando questi spazi come discariche all’aperto, ma dove l’uomo entra solo per piccoli pertugi e si muove lungo stretti passaggi nel pieno rispetto della crescita naturale e “disordinata” delle piante.